Non sono quello che mi è successo. Sono quello che ho scelto di essere. Carl Gustav Jung

The story of Marina

Hai presente quando alla fine di un film giallo svelano il nome dell’assassino e tutti gli indizi sparsi ore precedenti trovano finalmente una collocazione?

Ecco, scoprire da adulti di avere una malattia genetica rara è un po’ come rivedere un film giallo dalla fine.

La vita ti passa davanti e tutti i puntini che erano rimasti sospesi per anni si uniscono magicamente in un nome, una definizione, una diagnosi.

Della mia infanzia ricordo un dolore bruciante alle gambe, dalle caviglie risaliva nelle tibie e nelle ginocchia: iniziava verso le 4 del pomeriggio e andava avanti fino al mattino dopo.

Negli anni mi sono rotta, lussata, infiammata, tutto. Ho combattuto con costanti problemi allo stomaco e all’intestino, dolore generalizzato, lividi , stanchezza, vomito che duravano mesi, affaticamento muscolare, problemi di equilibrio, allergie…una galassia di sintomi senza un perché.

E in mezzo a questo mare di cose senza un chiaro nesso c’era sempre chi insinuava il dubbio: che non avessi nulla, che fosse tutto nella mia testa.

Che dovevo smetterla di cercare spiegazioni ed arrendermi al fatto che forse ero solo un pò maldestra.
La Bridget Jones del reparto di ortopedia.

Negli anni, ho imparato a non lamentarmi: mi sono diplomata, laureata, ho iniziato a lavorare, ho fondato una azienda, ho vinto premi, ho praticato mille sport diversi, dallo sci all’equitazione, dalla danza classica al pilates, e cercato di lasciare sullo sfondo il dolore costante che in realtà sento in tutto il corpo.

Poi la mia mandibola su lussa per l’ennesima volta e da lì, finalmente, ricevo una diagnosi.

Ero un caso da manuale, a quanto pare.

E con una diagnosi ho dato un nome ed un cognome al mio malessere, dignità e forma alla mia storia e al mio dolore.

Non sono la mia malattia, ma poter dare un nome alle cose è stato contemporaneamente doloroso e liberatorio.

Ho finalmente unito i puntini.

A volte sono travolta dalla paura.

Poi mi ricordo che l’unica cosa che mi aiuta a gestire il dolore è il movimento.

Un po’ come gli squali costretti a nuotare perennemente per vivere anche io sono costretta a muovermi il più possibile per non smontarmi.

E così come uno squalo mi butto e ci provo. Provo tutto. Sempre.

Perché quello che posso fare adesso, che riesco a fare ora con le mie condizioni fisiche attuali, onestamente non so se potrò farlo tra un anno, tra due o cinque.

Il futuro come lo intendono quelli sani non c’e più per me.

Spesso ritiro referti non brillanti, escono fuori nuovi dolori, ossa rotte, metaforicamente e no, ogni tanto a casa, da sola piango perché quando hai una malattia cronica per quanto puoi essere forte, hai paura di vedere la tua libertà sparire.

Di diventare dipendente dagli altri.

La ricerca va avanti ma non abbastanza e così, al momento senza una cura, l’unica cosa davvero efficace che sono riuscita a trovare per stare meglio è quella di darmi continuamente dei piccoli obiettivi.
Sognare nuove sfide e darmi da fare per vincerle.

Imparare cose nuove, provare sempre nuove attività, continuare con costanza a fare sport sempre ogni settimana religiosamente, fare fisioterapia, viaggiare, andare in barca, coccolare il mio cane, sciare, nuotare, godere della bellezza del mondo.

Immaginarmi un futuro ricco e pieno di ciò che amo è ciò che mi da la forza di sorridere. sempre, anche con la mandibola lussata.

E così eccomi qui, mi chiamo Marina, ho 38 anni e ho la Sindrome di Ehlers Danlos.